In Italia, la questione dell’armonizzazione dei sistemi pensionistici - divisi per diverse categorie di lavoratori e in particolare distinti per settore di appartenenza privato o pubblico - dura da sempre.
In una logica di sistema, oltre che a ripartizione, complessivo ed egualitario, occorrerebbe innanzitutto tenere conto del rapporto tra l’insieme dei lavoratori cosiddetti attivi e l’insieme dei lavoratori cosiddetti inattivi (pensionati o incapaci di produrre reddito da lavoro). Secondo i dati ISTAT, al 2013 i lavoratori occupati risultano in totale 22.420.000, di cui circa 3.000.000 impiegati nel settore pubblico. Un numero più o meno pari a quello degli inattivi ma disponibili a lavorare.
Le diversità di sistema privato-pubblico riguardano non solo il regime e la prestazione di pensione, nel senso stretto del termine, ma anche i regimi e le prestazioni propriamente previdenziali, diversamente denominate, di fine servizio (TFS) e/o fine rapporto (TFR). Inoltre, nell’ambito del settore pubblico, il regime in genere della prestazione previdenziale variava e varia anche a seconda del comparto di appartenenza del lavoratore.
Le riforme della prestazione previdenziale, avviate agli inizi degli anni Novanta con la legge delega n. 421/92, avevano innanzitutto lo scopo di trasferire le risorse contributive da un sistema finanziario, che potremmo definire sostanzialmente rigido, di accantonamento e d’investimento - parametrato ad un tasso di rivalutazione delle risorse impegnate in parte fisso (1,5%) e parte variabile in misura pari al 75% dell’indice ISTAT dei prezzi al consumo - ad un sistema finanziario, e di mercato, viceversa flessibile mediante investimento delle risorse disponibili in strumenti di previdenza integrativa o complementare quali PIP e Fondi Pensione.
E direi che oggi, invece, il processo di trasformazione del sistema ha prodotto sostanzialmente due risultati:
- sul piano giuridico: la caratterizzazione definitiva della prestazione previdenziale in termini di salario differito, con la conseguenza che la stessa prestazione non svolgerebbe più l’originaria funzione di carattere previdenziale, ma reddituale;
- sul piano finanziario: il decollo ma anche e soprattutto, aggiungerei, il mancato sviluppo di un sistema complessivamente alternativo del risparmio previdenziale.
Su quest’ultimo punto, occorre infatti registrare che, secondo i dati COVIP, al 2013 le adesioni a PIP e Fondi pensione, pur essendo in costante e progressivo aumento, ammontano in totale solo a 6.203.763 iscritti, vale a dire un numero pari al 27% circa del numero dei soli lavoratori attivi.
In questo quadro, s’inserisce dunque la proposta, affatto manifesta nei dettagli, per i soli lavoratori del settore privato, del trasferimento dal 1° gennaio 2015 della quota di riserva mensile del TFR in busta paga.
A parte il cambio generale d’indirizzo politico riguardante l’investimento finanziario di risorse, che non sarebbero più destinate al risparmio ma al consumo, vi sono alcuni aspetti della proposta di cui occorrerebbe comunque meglio discutere al fine di valutare le altre possibili conseguenze. In particolare:
- fenotipiche: relative ad un ulteriore disallineamento di trattamento tra il lavoratore privato e quello pubblico;
- gestionali dell’attività: relative all’ammontare dei versamenti (7,41% al lordo delle retribuzioni mensili degli addetti) a carico delle piccole e medie imprese (PMI). E, in particolare, per quanto concerne la stima dell’ammontare della liquidità di cui un’impresa, in base al numero dei propri addetti, dovrebbe mensilmente privarsi. Inoltre, tenendo anche conto delle specificità normative riservate ai lavoratori delle aziende con almeno di 50 addetti in materia di accantonamento del TFR nella gestione INPS di competenza;
- fiscali: relative al regime di tassazione a cui assoggettare la nuova fonte di reddito disponibile del lavoratore; considerato soprattutto che le somme di TFR o destinate alla previdenza complementare godono attualmente di un regime di tassazione, rispettivamente sia nel primo che molto più nel secondo caso, viceversa vantaggioso per il risparmiatore.
Angelo Giubileo