LE REGIONI IN ITALIA: DALLA NASCITA AI NOSTRI GIORNI

(Documento di informazione ed approfondimento)

PREMESSA

Il diritto regionale, anche definito diritto pubblico regionale, è una branca del diritto pubblico italiano. Gli studiosi di questo diritto si occupano di tutte le funzioni affidate alle Regioni ordinarie e a statuto speciale.

La fonte di diritto fondamentale è la Costituzione e in particolare il Titolo V, che si occupa appunto delle Regioni, delle Province, dei Comuni e delle Città Metropolitane.

Oltre che dagli articoli della Costituzione il diritto regionale si avvale - come fonti - della giurisprudenza della Corte costituzionale, degli Statuti ordinari e speciali, delle leggi regionali emanate dalle regioni stesse, delle norme di attuazione degli statuti speciali e degli atti normativi inerenti gli enti locali.

 

LA PREVISIONE ORIGINARIA NELLA COSTITUZIONE DEL 1948

Come noto, il sistema delle autonomie territoriali rappresenta un punto di osservazione privilegiato dei processi di riforma che hanno coinvolto l’ordinamento repubblicano nell’ultimo ventennio. Non a caso, l’assetto territoriale è stato indicato come una delle “pagine aperte” lasciate dall’Assemblea costituente, e solo successivamente (anche se in modo incompleto) affrontato dalle leggi costituzionali n. 1/1999 e n. 3/2001. La scelta regionalista e autonomista, contenuta nell’art. 5 Cost.,  rappresenta però una delle opzioni fondamentali dell’intero ordinamento costituzionale, ispirato ad un pluralismo non solo sociale (ex art 2 Cost.), ma anche territoriale. Le autonomie territoriali, pur con le loro differenze, sono quindi chiaramente individuate come enti esponenziali delle proprie comunità, dotate di specifiche potestà pubbliche (normative e amministrative) e portatrici di un proprio indirizzo politico-amministrativo.

Tuttavia, l'avvio delle Regioni (a parte l'esperienza delle autonomie speciali) risale solo al 1970, a distanza di oltre vent'anni dall'entrata in vigore della Costituzione,  mentre l'ordinamento delle autonomie locali ha vissuto ancora più a lungo nell'ambito di una disciplina (quella di cui al T.U. del 1934) evidentemente incoerente con i nuovi principi costituzionali, e radicalmente rivista solo nel 1990 -  L. n. 142. In ogni caso, a parte i riferimenti essenziali di cui agli artt. 5 e 114 Cost., l’ordinamento delle autonomie locali era rimesso, per espressa scelta del Costituente, interamente alla potestà legislativa dello Stato (art. 128 Cost.). In relazione ai poteri delle Regioni, l’art. 117 Cost. prevedeva una competenza legislativa in materia di “circoscrizioni comunali”, nonché in relazione a tutta una serie di materie di tradizionale competenza locale; infine, dal punto di vista amministrativo, l’art. 118 Cost. stabiliva che fosse lo Stato ad individuare le funzioni di interesse esclusivamente locale, mentre era previsto che le Regioni esercitassero normalmente le loro funzioni tramite delega agli enti locali.

In quest’ottica di forte uniformità del sistema delle autonomie locali, e di parallelismo tra funzione legislativa regionale e funzione amministrativa delle stesse, un ruolo di evidente condizionamento era riservato allo Stato, attraverso tutta una serie di controlli e poteri di intervento nei confronti non solo delle Regioni, ma anche degli enti locali. Il sistema della finanza locale, infine, risultava essenzialmente di tipo derivato, ricondotto a trasferimenti statali, mentre un accenno all’autonomia finanziaria delle Regioni era contenuto nell’art. 119 Cost .

Nel complesso, dunque, il disegno costituzionale e la legislazione di attuazione dell’ordinamento regionale e locale confermavano una scelta sostanzialmente intermedia tra gli ordinamenti che riconoscono una piena competenza dello Stato in materia di ordinamento locale (di tradizione tipicamente unitaria, a partire dal modello francese) e gli ordinamenti che rimettono ai singoli Stati o comunità regionali la citata competenza (ad assetto più marcatamente federale, come nel caso statunitense). Un sistema delle autonomie che, storicamente consolidato, trovava quindi un suo riferimento centrale, dal punto di vista istituzionale, nello Stato, ma al contempo un interlocutore importante, sul piano essenzialmente funzionale, nelle nuove Regioni, con particolare riferimento a materie di tradizionale competenza amministrativa locale.

Il contrastato avvio dell'esperienza regionalista ha pesato a lungo sull'efficienza delle politiche pubbliche a livello territoriale. In particolare, le ambiguità insite nel testo del 1948 non hanno innestato un virtuoso meccanismo di integrazione tra diversi livelli di governo, ma hanno consolidato sovrapposizioni, duplicazioni e scarso coordinamento degli interventi, tra tradizionali tensioni municipaliste e timori di un neo-centralismo regionale. Il tutto - come noto - ha portato ad un rafforzamento (nei fatti) della posizione già preminente dello Stato, a seconda delle circostanze, sensibile alle ragioni degli enti locali, a volte alleato delle Regioni. Il tutto, nell'ambito di una sostanziale omogeneità del sistema politico tra i diversi livelli di governo, che ha riversato a lungo a livello territoriale le stesse difficoltà e lo stesso immobilismo che caratterizzava il livello nazionale.

 

L’AVVIO DELL’ESPERIENZA REGIONALISTICA DEL 1970

Nel corso degli anni '70, i legislatori regionali sono intervenuti sensibilmente sul modello originario, non solo spingendo gli enti locali alla costituzione di consorzi in relazione all'attribuzione di funzioni o di specifici finanziamenti, ma sperimentando anche nuove e diverse forme di cooperazione.

Questo è, ad esempio, il caso delle associazioni intercomunali e dei comprensori, nati in occasione del processo di conferimento di funzioni amministrative alle Regioni e agli enti locali. In particolare, per quanto riguarda il settore socio-sanitario, il D.P.R. 616/1977 prevedeva espressamente la necessità, per le Regioni, di individuare determinati ambiti territoriali per la loro gestione contestuale, prevedendo anche forme obbligatorie di associazione costituite a tal fine. Su questa scia, la legislazione regionale intervenne sul piano organizzativo con le associazioni intercomunali, estendendone a volte anche l'ambito di intervento oltre a quanto previsto dalla legislazione statale, con evidenti finalità di creare un assetto sostanzialmente plurifunzionale. Contemporaneamente, nell'ambito della ricerca di nuovi livelli di aggregazione tra enti locali, diverse regioni articolarono il loro territorio in comprensori, considerati ambiti di programmazione di livello intermedio tra Regione e Comuni (oltre le dimensioni provinciali).

Del tutto particolare, invece, il caso delle comunità montane Istituite con legge n. 1102/1971 quali enti pubblici associativi obbligatori disciplinati e costituiti con legge regionale, esse hanno finalità legate essenzialmente alla pianificazione per lo sviluppo economico e sociale delle zone montane (spesso disagiate e tradizionalmente caratterizzate da realtà comunali di dimensioni minimali). Anche grazie alla legislazione statale e regionale, nel tempo (e in particolare a partire dalla metà degli anni '70) si sono viste riconosciute anche funzioni di gestione in particolari settori, a volte legati alle peculiarità del territorio (bonifica montana, pascoli, boschi), a volte coinvolti dai già citati processi di delega e di riorganizzazione territoriale (si pensi, ad esempio, alle funzioni socio sanitarie e scolastiche). In base a tale legislazione, alle Regioni spettava - in particolare - individuare le zone omogenee e i comuni destinati a costituire le comunità, emanare le norme per la formulazione degli statuti e per l'articolazione degli organi interni (assemblea, giunta esecutiva, presidente e revisori, tutti eletti dall'assemblea), fissare i criteri di ripartizione dei finanziamenti, approvare gli statuti stessi e gli atti di pianificazioni.

 

IL FEDERALISMO AMMINISTRATIVO

Concetto di federalismo amministrativo

La formula “federalismo amministrativo” è molto usata – forse troppo usata – ma sicuramente non chiara.

Le accezioni configurabili sono perlomeno due:

  • a) a grandi linee, il federalismo amministrativo è definibile, in un’accezione più ristretta, come il principio organizzativo in forza del quale gli enti pubblici territoriali minori dispongono, relativamente alla titolarità della funzione amministrativa – o esecutiva – di una competenza residuale, ossia relativa a tutti i profili non espressamente riservati agli enti dotati di ambito territoriale più ampio;
  • b)  in un’accezione più generica e meno impegnativa, per federalismo amministrativo potrebbe intendersi - più semplicemente - valorizzazione del ruolo delle autonomie territoriali attraverso l’incremento dell’ambito delle loro funzioni e compiti amministrativi.

E’ da notare che, mentre l’espressione “federalismo fiscale” viene menzionata in vari testi aventi forza di legge -  addirittura in sede di rubrica - l’espressione “federalismo amministrativo” si trova raramente in sede normativa: ad esempio, l’ufficio per il federalismo amministrativo viene istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, dall’art. 10, comma 8, della legge 5 giugno 2003, n. 131.

Sembra evidente che il federalismo di tipo amministrativo potrebbe accompagnarsi ad altri tipi di federalismo, ossia al federalismo relativo ad altre funzioni pubbliche: ad esempio, a favore del Comune si può configurare un federalismo amministrativo, ma non un federalismo legislativo (il Comune non legifera).

Il Federalismo amministrativo a Costituzione invariata

Con la famosa espressione “federalismo amministrativo a Costituzione invariata” si fa riferimento alla rilevante riforma, scaturita dalla legge 15 marzo 1997, n. 59, con la quale si è effettuato un ampio conferimento di funzioni e compiti amministrativi - unitamente a risorse umane, materiali e finanziarie - dallo Stato a Regioni ed enti locali.

Tale conferimento, ai sensi della legge 59/1997 (L. Bassanini), è avvenuto nelle diverse forme del “trasferimento”, della “delega” o dell’“attribuzione”, non ad opera della legge medesima, ma attraverso una variegata serie di atti:

  • decreti legislativi delegati (ai sensi dell’art. 1, comma 1), fra i quali quello avente carattere di generalità è stato il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112;
  • leggi regionali, per il conferimento agli enti locali, nelle materie di cui all’art. 117, comma 1, Cost., delle funzioni e dei compiti devoluti dallo Stato (art. 4, comma 1), con un intervento governativo in ipotesi di inerzia da parte delle regioni (art. 4, comma 5);
  • decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, quanto al riparto ed al trasferimento dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative necessarie all’esercizio dei compiti conferiti (art. 7, comma 1);
  • regolamenti governativi, recanti il riordino delle strutture statali coinvolte dai conferimenti (art. 7, comma 3).

I principi che reggevano l’attuazione del federalismo amministrativo, nel sistema della legge 59/1997, erano riconducibili a tre valori di fondo:

  • a) la sussidiarietà, in senso sia verticale, sia orizzontale;
  • b) la funzionalità, che si articola nei principi di efficacia ed economicità ed in quelli di adeguatezza e di differenziazione;
  • c) la responsabilità, che comprende anche unicità ed identificabilità.

 

Il programma di realizzazione del federalismo amministrativo è accompagnato dalla delegificazione, da attuarsi attraverso leggi annuali di semplificazione (art. 20).

Quindi il federalismo, in questa stagione feconda di innovazioni sul piano della legislazione primaria, si è sviluppato di pari passo con la semplificazione amministrativa, condizionandola. In effetti, si è scritto che “la politica di semplificazione”, che era stata per decenni spiccatamente statale, ha ora la tendenza a diventare “policentrica” e riproduce al suo interno “l’impronta marcatamente cooperativa” propria, sul piano generale, dei rapporti tra Stato e sistema delle autonomie

 

LA RIFORMA DEL TITOLO V NELLA LEGGE COST. N. 3/2001

La legge cost. 3/2001 ha introdotto nella Costituzione italiana alcune norme in materia di relazioni con l’Unione europea e di rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, ed altre relative ai rapporti con i Paesi terzi relativamente al diritto internazionale.

La riforma del Titolo V, di cui alla legge cost. n. 3/2001, ha cercato di dare “struttura” costituzionale ad alcune delle scelte già anticipate a livello amministrativo dalle riforme degli anni ’90. I principali punti sono: la valorizzazione delle autonomie territoriali nei confronti dello Stato, quali enti costitutivi della Repubblica (art. 114 Cost.); l’espresso riconoscimento dell'autonomia normativa degli enti locali; la generale inversione dell'ordine delle competenze legislative regionali rispetto a quelle dello Stato, ora titolare solo delle competenze espressamente enumerate dall'art. 117 Cost.; la scomparsa del limite dell'interesse nazionale; un rafforzamento della competenza legislativa delle Regioni in materie di tradizionale interesse degli enti locali (ad esempio governo del territorio, valorizzazione dei beni culturali, tutela della salute; ma anche polizia locale, servizi sociali, attività produttive, turismo, istruzione e formazione professionale, edilizia, viabilità, trasporti); l’individuazione in capo allo Stato della potestà legislativa in materia di organi di governo, legge elettorale e funzioni fondamentali degli enti locali. In particolare, quanto alla potestà normativa locale, la riforma, pur richiamando espressamente gli statuti degli enti locali, nulla prevede in relazione alle modalità della loro approvazione e al loro contenuto organizzativo, motivo per cui (per necessaria sovrapposizione con il concetto di “organi di governo”) sembra spettare comunque al legislatore statale una significativa competenza in materia, pur dovendo inevitabilmente lasciare all'autonomia locale i necessari spazi di intervento a livello statutario. In relazione all'esercizio delle funzioni, il già citato art. 117 Cost. riconosce per la prima volta espressamente a livello costituzionale la potestà regolamentare degli enti locali, che dovrà comunque trovare un limite nella legislazione statale o regionale a seconda dell'ambito di competenza e delle funzioni conferite.

Sul piano dell’attività amministrativa, l’art. 118 Cost. pone le basi per la fine dell’uniformità tra amministrazione statale e amministrazioni regionali e locali, con il superamento del principio del c.d. parallelismo tra funzione legislativa e funzione amministrativa, in favore del nuovo principio di sussidiarietà. La previsione, inoltre, dei principi di differenziazione ed adeguatezza (a parte una serie di funzioni fondamentali omogenee su tutto il territorio), mette in rilievo, accanto alla garanzia dell’autonomia locale, il problema della necessaria efficienza dell’azione amministrativa, attraverso forme adeguate di gestione delle funzioni. La consapevolezza, in questo senso, della profonda varietà delle realtà locali richiede, successivamente all'individuazione del livello comunale come livello generalmente titolare di tutte le funzioni, la precisazione che, in virtù della necessità di tutela di interessi unitari sia a volte necessario l'esercizio di determinate funzioni ad un livello territoriale più ampio (provinciale, regionale o statale).

 

LA RIFORMA DEL TITOLO V  (L. COST. 3/2001) CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALL’ART. 117 ED ALLE SUE CONSEGUENZE NEI RAPPORTI CON L’EUROPA E LA COMUNITA’ INTERNAZIONALE

Nell’ambito della riforma che ha investito il Titolo V, il nuovo art. 117 risulta uno degli articoli più innovativi sotto due diversi profili: in primo luogo, poiché detta le linee di base su cui dovranno articolarsi i futuri rapporti fra Stato, Regioni, Unione europea e Comunità internazionale; in secondo luogo, tale articolo contiene una nuova ripartizione di materie tra Stato e Regioni, elencando le materie di potestà legislativa esclusiva dello Stato, di potestà concorrente Stato-Regioni e facendo riferimento alla competenza residuale regionale.

Questi aspetti appaiono nei diversi commi dell’art. 117 , e precisamente:

  • i vincoli in capo alla potestà legislativa di Stato e Regioni derivanti dall’ordinamento internazionale e comunitario e l’inserimento nella nostra Costituzione del riferimento all’Unione europea (art. 117, 1° comma);
  • la nuova ripartizione delle materie tra Stato e Regioni (art. 117, 2°, 3° e 4° comma);
  • la partecipazione delle Regioni alla fase «ascendente» e «discendente» (art. 117, 5° comma);
  • il nuovo potere delle Regioni di stipulare accordi (art. 117, 9° comma).

Il nuovo art. 117 appare profondamente innovato rispetto al passato, dal momento che - per la prima volta - si è fatto riferimento all’ordinamento comunitario e all’Unione europea.

Innanzitutto, bisogna ricordare che il fenomeno dell’integrazione europea era sconosciuto al Costituente e anche in seguito in Italia non si è ritenuto di procedere con una riforma costituzionale ad hoc che tenesse in considerazione Il nuovo ruolo dell’Unione europea e dell’impatto del diritto europeo sull’ordinamento interno.

Di conseguenza, dal momento che l’unica parte della nostra Costituzione ad essere modificata in tempi recenti è stata proprio il Titolo V della parte II, è in questa parte - e specificamente all’art. 117 -  che si fa riferimento all’ordinamento dell’U.E..

Le norme contenute nel nuovo Titolo V relativamente ai rapporti dello Stato e delle Regioni con l’ordinamento europeo e con quello internazionale possono essere divise in tre gruppi, a seconda che configurino:

  • limiti dell’esercizio della funzione legislativa, dello Stato e delle Regioni (art. 117, 1° comma);
  • materie di competenza legislativa, statale o regionale (art. 117, 2° e 3° comma);
  • disposizioni specifiche e puntuali, dedicate alla partecipazione delle Regioni alla formazione e all’attuazione del diritto europeo e al loro «potere estero» (artt.117, 5° e 9° comma; 120, 2° comma).

Mentre le disposizioni indicate nei primi due punti appartengono alle norme costituzionali di «bilancio», volte a trasporre a livello costituzionale la situazione normativa venutasi a determinare negli anni ’90 per l’azione congiunta di riforme legislative e giurisprudenza costituzionale, le disposizioni del terzo punto appaiono profondamente innovative ed in grado di modificare profondamente l’impianto delle fonti nel nostro ordinamento.

Nel primo comma del nuovo articolo 117, si prevede la subordinazione della potestà legislativa di Stato e Regioni oltre che alla Costituzione, ai vincoli derivanti dall'ordinamento europeo e dagli obblighi internazionali.

L'intento del legislatore costituzionale è dunque di sancire la prevalenza della normativa internazionale ed europea sulla legislazione ordinaria statale e regionale, dal momento che l’ordinamento italiano ha accolto tali fonti internazionali ed europee come sovraordinate.

Per quanto riguarda i limiti derivanti dalla normativa comunitaria, essi hanno effettivamente operato anche prima della legge di riforma, trovando la loro base giuridica nell'articolo 11 della Costituzione. Si trattava comunque di una forzatura interpretativa dell'articolo citato.

Se tale lacuna costituzionale era inizialmente accettabile, dato che - come già ricordato - la nostra Costituzione ha visto la luce in un periodo storico in cui le relazioni internazionali non erano particolarmente intense e l'integrazione europea era soltanto un obiettivo da raggiungere, oggi appare di primaria importanza riconoscere a livello costituzionale il dovuto peso del contesto internazionale e dell'Unione Europea.

L'articolo 117 ha dunque risposto a questa esigenza con una formula che non lascia adito ad equivoci e che sottopone la potestà legislativa statale e regionale ai vincoli derivanti dai Trattati e dalla legislazione dell’U.E..

Il 5° comma dell’art. 117, ricalcando in parte il progetto messo a punto dalla Commissione parlamentare per le riforme costituzionali (c.d. «Commissione D’Alema»), stabilisce che «Le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina la modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza».

La nuova disposizione crea un vero e proprio obbligo per lo Stato di prevedere forme di partecipazione delle Regioni alla formazione degli atti comunitari, tanto diretta che indiretta.

Inoltre, tale previsione deve essere letta congiuntamente al 2° e 3° comma dell’art. 117, per cui allo Stato spetta potestà legislativa esclusiva riguardo ai «rapporti dello Stato con l’Unione europea» mentre alle Regioni spetta la potestà concorrente riguardo ai rapporti «con l’Unione europea delle Regioni».

Nel disciplinare i propri rapporti con l’Unione europea e nel dettare i principi relativi ai rapporti delle Regioni con le istituzioni comunitarie, il Parlamento deve rispettare il principio contenuto nel 1° comma dell’art. 117, ovvero il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e internazionale.

La partecipazione alla fase ascendente presenta dunque alcune peculiari connotazioni.

Non si tratta, infatti, per le Regioni di sostituirsi o di affiancarsi allo Stato nel processo di formazione dell'atto comunitario, come entità distinte dallo Stato, bensì di assumere un ruolo attivo in questa formazione insieme agli organi del potere centrale (autorità ministeriali competenti) nell'ambito del soggetto Stato italiano.

Da un punto di vista concreto, la partecipazione delle Regioni alla «fase ascendente» di formulazione della normativa comunitaria rappresenta uno dei punti di più difficile attuazione della riforma costituzionale.

Ciò per diversi motivi: innanzitutto per il fatto che il raggiungimento di una posizione comune delle Regioni non appare facile (si pensi al caso di scuola delle differenti priorità dell'agricoltura del Nord e del Sud Italia); quindi, perché il rappresentante nazionale dovrà comunque adoperarsi per l'individuazione di un interesse comunitario - al di là dell'interesse dei singoli Stati membri e delle loro Regioni - in tutte quelle materie in cui le decisioni vengono assunte a maggioranza qualificata; infine perché qualora le Regioni non siano soddisfatte dei risultati ottenuti dal rappresentante nazionale, potranno svilupparsi polemiche e contrasti, che non potranno però in alcun modo riflettersi sulla validità dell'atto deciso a Bruxelles e sulla necessità di recepirlo ed eseguirlo correttamente.

In ogni caso, affinché il contributo delle Regioni possa rivelarsi davvero utile, sarà importante il lavoro preparatorio in Italia, basato sulla definizione di un sistema di relazioni Stato-Regioni più efficiente, più agile e caratterizzato da un maggior coordinamento interistituzionale rispetto a quello attuale.

Al fine di rendere continuo il confronto tra Stato e Regioni, sarebbe ad esempio auspicabile la creazione di tavoli tecnici permanenti di concertazione in materia europea, con una Conferenza per gli Affari Comunitari generale e molteplici Conferenze settoriali.

Schemi simili sono già stati attuati in Italia, per esempio in materia di fondi strutturali e hanno dato buoni risultati. Essi potrebbero essere estesi ad altri settori e divenire una prassi condivisa tra amministrazioni centrali e regionali.

Sotto il profilo della «fase discendente», e cioè della partecipazione alla attuazione ed esecuzione degli atti dell’Unione Europea, il nuovo testo costituzionale riforma in profondità il riparto delle competenze normative tra Stato e Regioni.

Le Regioni sono infatti poste su un piano di parità con lo Stato, attraverso l'enunciazione di limiti generali relativamente sia alla funzione statale sia regionale.

Da un lato, dunque, le Regioni sono chiamate a dare immediata ed autonoma attuazione alle direttive comunitarie nelle materie di loro competenza esclusiva, e, previa indicazione dei principi fondamentali nella legge comunitaria (o in altra legge), nelle materie deferite alla competenza legislativa concorrente di Stato e Regioni.

In verità i Trattati, che non specificano quale ente – Stato piuttosto che Regioni – debba dare attuazione alla normativa comunitaria, attribuiscono invece una specifica rilevanza alla disciplina interna delle competenze.

Più precisamente, al di fuori delle specifiche e rare ipotesi di esplicite prese di posizione da parte della normativa comunitaria, i problemi di competenza circa l'attuazione della stessa vanno risolti all’interno dei singoli ordinamenti nazionali.

In linea di principio la normativa comunitaria, quindi, non è mai stata «contraria» nei confronti di una maggiore partecipazione delle Regioni all'attuazione degli atti comunitari.

La vera barriera è stata invece creata dal legislatore nazionale che, conformemente alla logica del «ritaglio delle competenze», ha sempre sostanzialmente teso a riservare allo Stato ogni prerogativa in ordine all'applicazione degli atti normativi comunitari.

L'attuale riforma cambia le cose ma non sopprime totalmente il ruolo dello Stato, anche di fronte all'attuazione di materie che rientrano nella competenza esclusiva delle Regioni.

Essendo, infatti, lo Stato l'unico responsabile nei confronti dell'ordinamento comunitario, la legge di riforma non manca di mutuare dal vecchio sistema la previsione sui poteri sostitutivi dello Stato, per scongiurare il rischio di inadempimento degli obblighi comunitari in caso di inerzia delle Regioni.

Tuttavia si cerca altresì di arginare il pericolo di un abuso di tali poteri - che finirebbe per vanificare tutto quanto la riforma intende realizzare - assicurando in ogni caso il rispetto dei principi di leale collaborazione e sussidiarietà.

Le previsioni relative alla fase ascendente e discendente, contenute al 5° comma dell’art. 117, hanno una portata decisamente ampia e generale e non disciplinino compiutamente la materia.

Tale sarà invece il compito della legge La Loggia di attuazione del nuovo Titolo V che è intervenuta ad integrare le lacunose indicazioni costituzionali.

L’Unione Europea è disciplinata da due trattati:

  • TUE (Mastrict : firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993) : art. 55 contenente  i principi costituzionali e le principali disposizioni istituzionali. Il Trattato, che ha modificato la struttura della Comunità Europea,  ha introdotto i cosiddetti tre pilastri della nuova Unione Europea : 
  1. la Comunità Europea, disciplinata dai trattati istitutivi delle Comunità Europee - CECA – Euratom – e CEE - 1° pilastro. L’attività della Comunità europea (e non più CEE) non si sarebbe più limitata al solo progetto di integrazione economica, ma si sarebbe estesa ad una area più vasta;
  2. la politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la politica estera e di difesa (PESD) 2° pilastro
  3. la cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni (CGAI) – 3° pilastro
  • TFUE (Lisbona) : art 358 contenente norme di tipo attuativo ed operativo.

Creato nel 1994 dal Trattato di Maastricht (1992) e composto da “rappresentanti delle collettività regionali e locali” titolari di mandato elettorale o politicamente responsabili dinanzi a un’assemblea eletta (art. 300, paragrafo 3 Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, TFUE), il Comitato era ed è l’organo consultivo di Parlamento, Consiglio e Commissione per gli atti che interessano le realtà locali e regionali (in particolare, coesione economica e sociale, reti transeuropee, sanità pubblica, istruzione e cultura, politica occupazionale, politica sociale, ambiente, formazione professionale e trasporti), e quindi in molti settori di competenza dell’Unione europea. Il TFUE, in sintonia con il sistema attuale, ne impone la consultazione se così prevedono i trattati, se un’istituzione politica lo ritiene opportuno, se l’atto riguarda in particolare la cooperazione transfrontaliera (art. 307, comma 1) e - da ultimo - se il Comitato si attiva motu proprio (art. 307, comma 4).

Il Trattato di Lisbona non ha certamente recepito le proposte, emerse all’epoca del Trattato costituzionale, di fare del Comitato delle Regioni una sorta di terza camera legislativa (accanto a Parlamento e Consiglio), proposte che avrebbero appesantito il law-making processo in sé già farraginoso.

Non può negarsi, tuttavia, che il Trattato di Lisbona segni qualche ulteriore progresso sulla via del regionalismo istituzionale.

 

L’ULTERIORE REVISIONE DEL TITOLO V  NEL DISEGNO DI LEGGE DEL GOVERNO RENZI (N. 1429)

Negli ultimi anni il sistema istituzionale si è dovuto confrontare con potenti e repentine  trasformazioni, che hanno prodotto rilevanti effetti sui rapporti tra Governo, Parlamento e Autonomie territoriali - incidendo indirettamente sulla stessa forma di Stato e di Governo - senza tuttavia che siano stati adottati interventi diretti a ricondurre in modo organico tali trasformazioni entro un rinnovato assetto costituzionale.

Lo spostamento del baricentro decisionale appare connesso alla forte accelerazione del processo di integrazione europea. In particolare, è emersa l'esigenza di adeguare l'ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea (da cui sono discesi, tra l'altro, l'introduzione del Semestre europeo e la riforma del patto di stabilità e crescita) e alle relative stringenti regole di bilancio (quali le nuove regole del debito e della spesa). Si evidenziano le sfide derivanti dall'internazionalizzazione delle economie e dal mutato contesto della competizione globale, le spinte verso una compiuta attuazione della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione tesa a valorizzare la dimensione delle Autonomie territoriali e - in particolare - la loro autonomia finanziaria (da cui è originato il cosiddetto federalismo fiscale), l'esigenza di coniugare quest'ultima con le rinnovate esigenze di governo unitario della finanza pubblica (connesse anche ad impegni internazionali). Tutto quanto sottolineato ha dato luogo ad interventi di revisione costituzionale rilevanti, ancorché circoscritti, che hanno (da ultimo) interessato gli articoli 81, 97, 117 e 119, della Carta, ma che non sono stati accompagnati da un processo organico di riforma in grado di razionalizzare in modo compiuto il complesso sistema di governo multilivello articolato tra Unione europea, Stato e Autonomie territoriali, entro il quale si dipanano oggi le politiche pubbliche.

In mancanza del necessario processo di adeguamento costituzionale, il sistema istituzionale è stato indotto ad adattamenti spontanei caratterizzati da risposte - spesso di carattere emergenziale - che si sono rivelate talora anomale e contraddittorie e che non hanno in definitiva rimosso alla radice i problemi che abbiamo dinanzi.

In questa prospettiva, il progetto di revisione costituzionale delineato nel disegno di legge Renzi (n. 1429) persegue una pluralità di obiettivi e prende le mosse da una duplice esigenza: da una parte, rafforzare l'efficienza dei processi decisionali e di attuazione delle politiche pubbliche nelle quali si sostanzia l'indirizzo politico, al fine di favorire la stabilità dell'azione di governo e quella rapidità e incisività delle decisioni che costituiscono la premessa indispensabile per agire con successo nel contesto della competizione globale; dall'altra, semplificare e impostare in modo nuovo i rapporti tra i diversi livelli di governo, definendo un sistema incentrato su un nuovo modello di interlocuzione e di più intensa collaborazione inter-istituzionale e - in alcuni ambiti - di co-decisione tra gli enti che compongono la Repubblica, volto a favorire il protagonismo dei territori nella composizione dell'interesse generale e la compiuta espressione del loro ruolo nel sistema istituzionale.

Sotto il profilo della politica costituzionale, il Governo ritiene, infatti, che l'autonomia degli enti diversi dallo Stato costituisca un insostituibile elemento di arricchimento del sistema istituzionale e che quanto più il potere pubblico è prossimo ai cittadini, tanto più è elevata la qualità della vita democratica e la capacità delle istituzioni di soddisfare i diritti civili e sociali ad essi riconosciuti, secondo il principio della sussidiarietà verticale, incorporato anche nell'architettura istituzionale dell'Unione europea.

Affinché questa ineludibile premessa possa inverarsi positivamente nelle dinamiche istituzionali, occorrono tuttavia sedi, strumenti, procedure e metodi nuovi, che assicurino il dispiegamento del principio autonomistico in un quadro di cooperazione inter-istituzionale e di composizione delle istanze dei territori nell'interesse generale del Paese.

È, infatti, proprio la mancata definizione di questi elementi che ha impedito al nostro ordinamento di intraprendere una traiettoria evolutiva coerente con le ragioni che hanno animato il legislatore costituzionale quando fu definita la riforma del titolo V, le cui travagliate vicende, normative e giurisprudenziali, sono ben note.

Oggi si tratta, quindi, di dare impulso a un processo che garantisca davvero alle autonomie regionali e locali un virtuoso coinvolgimento nel circuito decisionale di livello nazionale, in modo meno conflittuale e più proficuo di quanto sinora accaduto.

A questa logica di fondo risponde la trasformazione del Senato della Repubblica nel Senato delle Autonomie, rappresentativo delle istituzioni territoriali. Esso si configura proprio come quella sede di raccordo tra lo Stato e gli enti territoriali la cui sostanziale assenza nel disegno di riforma del titolo V ha impedito la realizzazione di un sistema di governo multilivello ordinato, efficiente e non animato da dinamiche competitive, in grado di bilanciare interessi nazionali, regionali e locali e di assicurare politiche di programmazione territoriale coordinate con le più ampie scelte strategiche adottate a livello nazionale.

A tale riguardo, la scelta operata dal disegno di legge è quella di superare l'attuale bicameralismo paritario - che non ha eguali nel panorama internazionale - mediante la definizione di un nuovo assetto bicamerale differenziato, nel quale la Camera diviene titolare in via esclusiva del rapporto di fiducia con il Governo, esercitando la funzione di indirizzo politico, la funzione legislativa e quella di controllo sull'operato del Governo, mentre il Senato delle Autonomie si caratterizza come un organo rappresentativo delle «Istituzioni territoriali».

La riforma del titolo V è strutturata nel disegno di legge in modo complementare con quella del bicameralismo, essendo diretta a rendere più fluidi i rapporti tra i poteri legislativi e più flessibili i criteri di riparto delle competenze legislative, secondo una logica che fa premio sull'integrazione strutturale delle istanze delle autonomie nel circuito della decisione legislativa. Logica che va ben oltre il principio della leale collaborazione sul quale sinora - faticosamente e anche grazie all'opera della Consulta - è stata assicurata la tenuta complessiva del sistema istituzionale.

Il presupposto fondamentale da cui muove la riforma del titolo V è, infatti, l'integrazione delle Autonomie territoriali nelle politiche legislative, resa possibile dalla nuova composizione del Senato e dalla riconfigurazione del suo ruolo e - in particolare - dalla nuova disciplina costituzionale del procedimento legislativo, in base alla quale alla Camera dei deputati spetterà la pronuncia in via definitiva sulle leggi, ma al Senato delle Autonomie è riconosciuta la facoltà di deliberare - su richiesta di un terzo dei suoi componenti - proposte di modificazione su ciascun disegno di legge approvato dalla Camera, ivi inclusi i disegni di legge di conversione dei decreti-legge; proposte che, quando attengano a provvedimenti che incidano in numerosi ambiti di più stretto interesse degli enti territoriali, assumono una valenza rafforzata nel procedimento, atteso che l'altra Camera potrà discostarsene solo con una nuova deliberazione finale da adottare a maggioranza assoluta dei suoi componenti.

È del tutto evidente il rilievo che assume tale previsione, che pur non riconoscendogli un potere di veto, attribuisce al Senato - in alcune materie - la possibilità di incidere significativamente sul processo decisionale e sulle sottese dinamiche politiche, e ciò anche in un sistema della rappresentanza politica nazionale animato da una logica di carattere maggioritario.

 

Le principali innovazioni che interessano il titolo V sono:

  • a) la riconduzione alla potestà legislativa esclusiva dello Stato di alcune materie e funzioni, originariamente attribuite alla legislazione concorrente, in relazione alle quali sono emerse permanenti esigenze di disciplina ispirate ai princìpi dell'unità giuridica ed economica della Repubblica e alla tutela dell'interesse nazionale, ovvero si sono manifestate sovrapposizioni che hanno dato luogo a incertezze normative in ambiti ritenuti essenziali, in particolare per lo sviluppo economico, o, ancora, che sono apparse strettamente connesse all'evoluzione dei rapporti tra lo Stato e l'Unione europea e funzionali al rispetto dei vincoli di finanza pubblica derivanti anche da impegni internazionali;
  • b) l'attribuzione alle regioni della potestà legislativa in ogni materia e funzione non espressamente riservata alla legislazione esclusiva dello Stato, consequenziale alla soppressione delle materie concorrenti, accompagnata dalla specificazione - ancorché non esaustiva e tassativa - delle finalità proprie della legislazione regionale, che sono state enucleate in una prospettiva attenta alle esigenze di tutela dei diritti fondamentali e di incremento della competitività dei sistemi territoriali;
  • c) l'introduzione - quale norma di chiusura del sistema - di una «clausola di supremazia», in base alla quale la legge statale, su proposta del Governo che se ne assume dunque la responsabilità, può intervenire su materie o funzioni che non sono di competenza legislativa esclusiva dello Stato, allorché lo richiedano esigenze di tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica o lo renda necessario la realizzazione di programmi o di riforme economico-sociali di interesse nazionale;
  • d) la previsione della facoltà per lo Stato di delegare - con legge approvata a maggioranza assoluta della Camera - l'esercizio della funzione legislativa (disciplinando al contempo l'esercizio delle funzioni amministrative corrispondenti), in materie o funzioni di sua competenza esclusiva -- salvo alcune eccezioni per le materie di maggiore delicatezza sul piano istituzionale -- alle regioni o ad alcune di esse, anche per un tempo limitato; tale previsione sostituisce quella in materia di regionalismo differenziato ai sensi dell'attuale articolo 116, terzo comma, della Costituzione, di cui si prevede conseguentemente la soppressione.

 

Lì, 23.01.2015

 

Elaborazione Ufficio ANQUAP di Roma                                                                                                                      Il Presidente

          Giuseppina Filippelli                                                                                                                                         Giorgio Germani

 

Fonti :

Testi consultati : “Autonomie territoriali e processi di riforma: le forme associative degli Enti Locali tra legge statale e legge regionale” di Tommaso F. Giupponi; “Osservazioni sul cosiddetto Federalismo Amministrativo nella sua evoluzione e nei suoi sviluppi” di Piera Maria Vipiana Perpetua; “La riforma del Titolo V della Costituzione: il nuovo ruolo delle Regioni nei rapporti con lo Stato e con l’Unione Europea” di Stella Marcazzan ( Collegio europeo di Bruges); “Dalla Comunità Economica Europea all’Unione Europea – Cenni storici SAISA” ; “Trattato di Lisbona e ruolo delle Regioni” di Fernando Nelli Feroci; “Disegno di Legge Costituzionale n. 1429” presentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri (RENZI) e dal Ministro per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento (BOSCHI).

                                               

 


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Categoria: Approfondimenti Data di creazione: 23/01/2015
Sottocategoria: Sottocategoria n. 1 Ultima modifica: 23/01/2015
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