PREMESSA
Ci piace ricordare e coltivare “il vizio della memoria” su avvenimenti che in vario modo e in diversi settori hanno segnato la storia della nostra Nazione e del suo Popolo.
In questo sforzo di ricordo e memoria ci è parso interessante indagare su quanto avvenuto nel 1970, 50 anni fa, in ambito istituzionale e politico (le prime elezioni nelle Regioni a statuto ordinario e i moti di Reggio Calabria), economico e lavorativo (lo Statuto dei lavoratori), sportivo e scolastico (Italia-Germania 4 a 3, il ritardo di scrutini ed esami causa sciopero dei docenti).
LE PRIME ELEZIONI NELLE REGIONI A STATUTO ORDINARIO
In Italia le Regioni sono a statuto ordinario o a statuto speciale.
La differenza è data dalla natura e dal contenuto dell'atto: lo statuto speciale è una legge costituzionale e definisce le forme e condizioni di autonomia speciale, mentre per le altre regioni le forme e condizioni di autonomia sono stabilite dalla Costituzione e lo statuto ordinario delle stesse viene approvato con legge regionale statutaria.
Cinque regioni italiane sono a statuto speciale, approvato dal Parlamento con legge costituzionale: Sicilia, Sardegna, Valle d'Aosta, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige (in realtà costituita dalle province autonome di Trento e Bolzano, ai sensi dell'art. 116 della Costituzione).
L'esigenza di concedere particolari forme di autonomia ad alcuni territori si venne a creare immediatamente dopo la fine della seconda guerra mondiale. Con il decreto-legge n. 21 del 27 gennaio 1944 e con il D.L. n. 91 del 18 marzo 1944 furono create le figure rispettivamente dell'Alto commissario per la Sardegna e dell'Alto commissario per la Sicilia; queste figure furono coadiuvate da una Giunta consultiva (istituita con D.L. n. 90 del 16 marzo 1944 per la Sardegna, e con il sopracitato D.L. 91/1944 per la Sicilia) e quindi da una Consulta regionale rappresentativa dei partiti e dei sindacati regionali (istituita per la Sicilia con decreto legislativo luogotenenziale n. 416 del 28 dicembre 1944 e per la Sardegna con D. Lgs. Lgt. n. 417 dello stesso giorno).
La Sicilia ebbe il suo statuto speciale con R.D.Lgs. 455, 15 maggio 1946, dunque prima del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 oltre che della Costituzione della Repubblica.
Il 5 settembre 1946, nell'ambito della Conferenza di pace di Parigi, venne firmato l'Accordo De Gasperi-Gruber, che prevedeva la concessione alle province di Trento e Bolzano di un «potere legislativo ed esecutivo regionale autonomo». Entrò inoltre in vigore anche il D.Lgs.Lgt. n. 545, 7 settembre 1945 che costituiva la Circoscrizione autonoma della Valle d'Aosta.
Le autonomie speciali così concesse furono coperte dall'art. 116 della nuova Costituzione italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948. La XVII disposizione transitoria e finale della Costituzione previde che l'Assemblea Costituente avrebbe dovuto decidere in materia di statuti regionali speciali (oltre che di legge elettorale del Senato della Repubblica e legge sulla stampa) entro il 31 gennaio 1948: in virtù di questa previsione, il 26 febbraio 1948 vennero approvate le leggi costituzionali contenenti gli statuti in questione, in deroga al procedimento ordinario di approvazione di una legge costituzionale previsto dall'art. 138 della Costituzione stessa:
- L. cost. 2/1948: Conversione in legge costituzionale dello Statuto della Regione Siciliana;
- L. cost. 3/1948: Statuto speciale per la Sardegna;
- L. cost. 4/1948: Statuto speciale per la Valle d'Aosta;
- L. cost. 5/1948: Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige;
L'ultima regione ad autonomia speciale ad essere costituita fu il Friuli Venezia Giulia, la cui determinazione dei confini fu resa delicata dalla loro rilevante importanza geopolitica nell'ambito della guerra fredda, in quanto, fino alla rottura di Tito con l'Unione Sovietica, vi correva la divisione tra il blocco occidentale e quello socialista. Lo statuto della regione Friuli Venezia Giulia fu approvato con l. cost. n. 1/1963 il 31 gennaio 1963.
Lo Statuto ordinario, invece, è la fonte primaria delle altre 15 Regioni (Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria), gerarchicamente subordinata alla Costituzione. L'articolo 123 della Costituzione prevede per lo Statuto un contenuto "necessario" che va a disciplinare e regolamentare una serie di norme che vanno a definire la Forma di Governo, il diritto di iniziativa e del Referendum su leggi regionali e provvedimenti amministrativi, nonché la pubblicazioni delle leggi regionali e dei regolamenti regionali, la modalità di elezione degli organi principali dello statuto, e le modalità di elezione del Presidente della Giunta regionale (vedi artt. 121-126 Cost), gli organi, i rapporti tra di loro e le rispettive competenze (vedi art. 121 Cost). Non si possono determinare negli Statuti: gli organi della Regione e le competenze, (fissati già dall'art. 121 Cost.) e il sistema elettorale e la durata degli organi elettivi (già fissati dagli artt. 122-126).
Tutto ebbe inizio con il Governo Moro del dicembre 1963, quando il tema regionale fu al centro del programma politico anche in vista di una estensione del metodo della programmazione per superare i divari ancora esistenti nel Paese, in particolare quello tra Nord e Sud. Aldo Moro già nel 1960 aveva presieduto la "Commissione di studi per l'attuazione delle Regioni di diritto comune", istituita con lo scopo di studiare le modifiche alla normativa del 1953 e di elaborare un progetto sul finanziamento delle Regioni.
Il 21 giugno 1967 il Ministro dell'Interno, Paolo Emilio Taviani, presentò alla Camera un disegno di legge poi approvato come legge elettorale regionale (Legge 17 febbraio 1968 n. 108). Era il momento conclusivo di un lungo dibattito politico tra i sostenitori delle elezioni a suffragio universale e diretto e coloro che sostenevano elezioni indirette di secondo grado affidate ai consiglieri provinciali. Il disegno di legge governativo definitivo optò per le elezioni dirette anche per il clima politico diverso venutosi a creare, con il consolidamento della collaborazione DC-PSI.
La Legge n. 108 ("Norme per la elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale") concluse il suo iter parlamentare con il voto favorevole dei partiti di governo (DC, PSI, PRI e PSDI), oltre che delle opposizioni di sinistra (PCI e PSIUP), e il voto contrario di PLI, MSI e monarchici.
Nel testo legislativo si stabiliva, inoltre, che le prime elezioni regionali dovessero avvenire "contemporaneamente alle elezioni comunali e provinciali" e che, in ogni caso, si sarebbero dovute tenere entro il 1969, termine poi spostato alla primavera del 1970 dalla Legge 7 novembre 1968.
Il 22 maggio 1970 fu pubblicata la Legge 16 maggio 1970 n. 281 ("Provvedimento finanziario per l'attuazione delle Regioni a statuto ordinario"), c.d. legge finanziaria per le regioni a statuto ordinario.
La normativa era espressione di una scelta "restrittiva" dell'autonomia finanziaria regionale. Di fronte al dettato dell'art. 119 della Costituzione, infatti, si adottava una interpretazione riduttiva, non consentendo alle regioni di istituire tributi propri pur nei limiti dei principi statali. A nulla valse l'opposizione delle sinistre, in special modo del PCI, che presentarono una propria proposta di legge.
Con l'elezione dei Consigli Regionali del 1970 le Regioni entrarono nella storia istituzionale italiana, provvedendo subito alla propria fase costituente con l'approvazione degli Statuti.
Gli Statuti vennero promulgati il 22 maggio 1971, ad eccezione di quelli dell'Abruzzo e della Calabria dove i ritardi erano stati provocati dalla scelta del capoluogo di regione, promulgati nel luglio.
A completare la prima fase del regionalismo italiano intervenne la delega per la definizione delle funzioni, degli uffici e del personale da trasferire ai nuovi Enti come stabilito dall'art. 17 della legge n. 281 del 1970. Tale disposizione della legge finanziaria delegava il Governo ad emanare, entro due anni dalla sua entrata in vigore, dei decreti aventi valore di legge ordinaria per regolare il passaggio alle Regioni delle funzioni previste dall'art. 117 della Costituzione oltre che del relativo personale statale.
Successivamente, con il d.P.R. n. 616 del 1977, il settore delle politiche sociali era connotato da una forte impronta regionalista ed ancora di più comunale.
Già dal 1977, era comunque evidente come si fosse posto in capo ai Comuni l’esercizio di tutte le funzioni amministrative in materia di assistenza, prevedendo contestualmente il trasferimento agli stessi delle funzioni, del personale e dei beni dei diversi enti operanti in materia.
Il processo di semplificazione e federalismo amministrativo avviato con la legge n. 59 del 1997 ha avuto, nel campo delle politiche sociali, una connotazione particolare, dovuta all'assetto delle funzioni e dei compiti definito precedentemente. Già a partire dal d.P.R. n. 616 del 1977, infatti, il settore delle politiche sociali era connotato da una forte impronta regionalista ed ancora di più comunale; in questo settore il processo di riforma avviato dalla legge n. 59 del 1997 è stato caratterizzato più che da nuovi conferimenti di funzioni, da sostanziali riforme, ispirate dai principi che hanno sostenuto l’avvio del federalismo amministrativo a Costituzione invariata.
Con la legge regionale 21 aprile 1999, n. 3 la Regione Emilia-Romagna ha definito la “Riforma del sistema regionale e locale”, in attuazione a quanto stabilito dalle leggi 15 marzo 1997, n. 59, 15 maggio 1997, n. 127 ed ai decreti emanati per la loro attuazione. In materia di servizi sociali si è provveduto a fissare i principi della successiva riforma organica della legislazione regionale, definendo le funzioni della Regione, delle Province e dei Comuni in coerenza con i principi ispiratori della riforma.
Successivamente fu emanato il Decreto Legislativo 112/1998 del 31 marzo 1998, “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali”.
È da considerare un importante atto normativo con il quale si diede corpo ad una redistribuzione delle funzioni pubbliche nell'ambito del decentramento amministrativo in Italia e del dibattito politico sul federalismo.
Le competenze trasferite alle regioni, alle province, ai comuni, alle comunità montane o ad altri enti locali e, nei casi espressamente previsti, alle autonomie funzionali (Scuole, Università e Camere di Commercio), riguardano funzioni e compiti amministrativi e non politici. Il decreto medesimo precisa, all'art. 1, che il trasferimento comprende anche le funzioni di organizzazione e le attività connesse e strumentali all'esercizio delle funzioni e dei compiti conferiti, quali fra gli altri, quelli di programmazione, di vigilanza, di accesso al credito, di polizia amministrativa, nonché l'adozione di provvedimenti contingibili e urgenti previsti dalla legge. In alcuni casi si tratta di competenze non statali, riassegnate ad enti diversi (ad esempio funzioni precedentemente delle province, ora delle camere di commercio).
Si tratta del più importante trasferimento di poteri a Regioni e Enti Locali, prima della Riforma costituzionale del Titolo V.
Da ricordare, inoltre, che Il16 aprile 2000, nelle quindici regioni a statuto ordinario si tennero le elezioni per il rinnovo dei Consigli regionali e per l'elezione del Presidente della Giunta regionale. In seguito alle modifiche apportate alla Costituzione nel dicembre del 1999 queste elezioni apportarono alcune importanti novità. Anzitutto il Presidente della Giunta regionale, anziché essere eletto dal Consiglio regionale come avveniva in passato, sarebbe stato eletto direttamente dai cittadini. Inoltre il nuovo Consiglio regionale avrebbe avuto l'incarico di modificare lo Statuto, di decidere come eleggere in futuro il Presidente della Giunta regionale e quale legge elettorale adottare per l'elezione del Consiglio regionale a partire già dal 2005.
Con la legge costituzionale n. 1/1999 viene modificata la forma di governo delle regioni, in particolare gli articoli 121, 122, 123 della Costituzione.
Dopo anni di discussione nelle sedi parlamentari si giunge poi all'approvazione della legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, grazie al risultato del referendum costituzionale appena concluso, che modifica sostanzialmente il riparto delle funzioni legislative, regolamentari e amministrative tra Stato e regioni.
In particolare, sono stati modificati gli articoli:
- 114, il quale afferma che la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni, oltre che le Comunità montane [3] sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni secondo i princìpi fissati dalla Costituzione, ponendo quindi sullo stesso piano (equiordinazione) regione e Stato (entrambi sono dotati del potere di legiferare);
- 117, in cui, tra l'altro, si evidenzia la potestà legislativa equiparata tra Stato e regioni (potestà esclusiva, concorrente e residuale) nel rispetto della Costituzione nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali;
- 118, che attribuisce le funzioni amministrative ai comuni, province, città metropolitane, regioni e Stato sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza;
- 119, che definisce per gli enti locali l'autonomia finanziaria di entrata e di spesa (la prima in particolare implica la possibilità di imporre una tassazione aggiuntiva a quella nazionale con scopo di autofinanziamento da parte degli enti locali).
I MOTI DI REGGIO CALABRIA SUL CAPOLUOGO DI REGIONE
Nel 1970 nascono in Italia le Regioni, organi del decentramento politico e amministrativo già previsti nella Costituzione. Dopo mesi di discussione si decide che il capoluogo della Regione Calabria sarà Catanzaro e non Reggio Calabria, come tutti i reggini si aspettavano. È la scintilla che fa scoppiare una delle rivolte urbane più violente e più lunghe dell'Italia repubblicana.
Quando si parla dei moti di Reggio (anche fatti di Reggio o rivolta di Reggio Calabria) si fa riferimento ad una sommossa popolare avvenuta a Reggio Calabria dal luglio del 1970 al febbraio del 1971, in seguito alla decisione di collocare il capoluogo di regione a Catanzaro nel quadro dell'istituzione degli enti regionali.
Più precisamente, il 14 Luglio 1970 scoppiava la “Rivolta” di Reggio Calabria. Nel corso di quella giornata, il Sindaco Piero Battaglia tenne un discorso a Piazza Italia. Erano passati nove giorni dal famoso “rapporto alla città”, in cui lo stesso Sindaco, si pose contro il suo partito, la Democrazia Cristiana, per la scelta operata dal governo di allora di “affidare” il capoluogo di Regione a Catanzaro. La protesta fu ampia e dura con la creazione di vere e proprie barricate. Reggio per mesi fu blindata: migliaia i carabinieri, i poliziotti e militari dell’esercito presenti tra le vie di una città martoriata da una vera e propria guerriglia giornaliera. Il bilancio finale fu durissimo.
Nei giorni seguenti l’assegnazione a Catanzaro il malcontento fu politicamente trasversale, ma in una seconda fase furono i movimenti di destra, ed in particolare il Movimento Sociale Italiano, a ricoprire un ruolo di primo piano nell’interpretazione e monopolizzazione del disagio che montava. Alla radice della protesta, gli antichi guai che affliggevano la città: economia di basso profilo, disoccupazione, migrazione verso il nord, povertà. Il sindacalista della Cisnal, Ciccio Franco, rilanciò il famoso motto 'Boia chi molla' (usato già ai tempi della prima guerra mondiale dagli Arditi) e ne fece un cavallo di battaglia per cavalcare la protesta dei reggini, indirizzandola verso una connotazione antisistema e fortemente polemica nei confronti di un governo che non sapeva ascoltare la voce del sud più profondo ed arretrato.
Il 17 settembre 1970 Ciccio Franco e Alfredo Perna furono arrestati con l'accusa di istigazione a delinquere e apologia di reato. Condannati, furono rimessi in libertà provvisoria il 23 dicembre 1970. Nelle stesse ore due armerie e la Questura vennero prese d'assalto da centinaia di persone.
Una città in guerra per il capoluogo di Regione, assegnato invece a Catanzaro. Una guerra vera, con 5 morti e duemila feriti, oltre 800 arresti, danni per miliardi di lire dell'epoca. I reggini devastarono la loro città; ingaggiarono scontri furiosi con le forze dell'ordine; ruppero il legame che li univa ai maggiori partiti e sindacati e scelsero nuove forme di rappresentanza. A Reggio durante i moti furono chiusi negozi e uffici; bloccati porti, aeroporto, ferrovie e autostrada; interrotti gli esami a scuola, ferme poste e banche, e pure l'Inps.
Fu una rivolta di popolo, scesero in piazza facinorosi, ma anche ragazzi e vecchi, ed e' ancora vivo il ricordo delle anziane vestite di nero e delle massaie muoversi fra le barricate come esperte rivoluzionarie. La rivolta nacque dalla rivendicazione di un pennacchio (il capoluogo di Regione, appunto) ma aveva un concreto risvolto economico e politico per una città fino a quel momento tagliata fuori dallo sviluppo degli anni del boom, e che ora correva il rischio di perdere anche il treno della Regione che, detto in altre parole, significava qualche migliaio di nuovi posti di lavoro pubblici, apertura di sedi e uffici per gli assessorati, indotto amministrativo e commerciale, e prestigio. Reggio fu sottosopra per 8 mesi, durante i quali successero cose inimmaginabili: fu assaltata e incendiata la questura, dentro alla quale c'erano centinaia di agenti. Un'autocolonna di militari fu attaccata da due commandos con le molotov lungo l'autostrada. Infine, dovettero intervenire i carri armati per sgombrare le barricate.
La situazione tornò alla normalità solo otto mesi dopo. Il 23 febbraio 1971 l'esercito entrò a Reggio Calabria con i mezzi cingolati e ristabilisce l'ordine manu militari. Nel frattempo, il governo guidato da Emilio Colombo approvava un pacchetto di misure economiche a favore di Reggio. Tra queste la costruzione del V Centro siderurgico a Gioia Tauro, che però non vide mai la luce a causa della sopraggiunta crisi della siderurgia.
Ad oggi, abbiamo un doppio Capoluogo. Infatti, sede della Giunta Regionale è Catanzaro, mentre sede del Consiglio Regionale è Reggio Calabria.
LO STATUTO DEI LAVORATORI (LEGGE 300/70)
LEGGE 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori) Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento.
Il 20 maggio 1970 nasceva la legge 300 del 1970.
La Legge in oggetto introdusse importanti e notevoli modifiche sia sul piano delle condizioni di lavoro che su quello dei rapporti fra i datori di lavoro e i lavoratori, con alcune disposizioni a tutela di questi ultimi e nel campo delle rappresentanze sindacali; ad oggi di fatto costituisce, a seguito di minori integrazioni e modifiche, l'ossatura e la base di molte previsioni ordinamentali in materia di diritto del lavoro in Italia.
Il rapporto di lavoro che si instaura tra datore di lavoro e dipendente determina il sorgere di diritti e obblighi, poteri e vincoli di subordinazione in capo alle parti.
Generalmente viene fornita una classificazione tripartita dei poteri del datore di lavoro ovvero potere direttivo, potere di vigilanza e controllo e, infine, il potere disciplinare.
L’approvazione dello Statuto costituisce uno degli interventi legislativi più importanti avviati in Italia in materia di lavoro, con l'obiettivo di garantire il rispetto della libertà e della dignità del lavoratore nel rapporto di lavoro e di assicurare nei luoghi di lavoro la presenza sindacale per il rispetto della normativa stessa.
Lo Statuto dei Lavoratori, che in larga parte si deve al lavoro del giuslavorista Gino Giugni, arriva nel 1970 al culmine di una stagione di risveglio sociale che aveva scosso l'Italia: il '68, la stagione di unità sindacale apertasi con le rivendicazioni contrattuali, il ruolo della grande impresa italiana, spesso impreparata di fronte alle lotte operaie, ma anche e soprattutto l'incidenza che ebbero alcuni protagonisti, come Giacomo Brodolini, Carlo Donat Cattin e lo stesso Giugni, nel far diventare norme i diritti elementari nei posti di lavoro.
Per oltre quaranta anni l’impianto normativo originale ha retto alle profonde trasformazioni della società e dell’impresa. Nello scorso decennio la legge originaria ha subito, invece, diverse modifiche ma, di fatto, lo Statuto dei Lavoratori costituisce ancora l'ossatura e la base del diritto del lavoro in Italia.
Lo Statuto dei Lavoratori si compone di 6 Titoli e di 41 articoli. Il titolo I (articoli 1-13) disciplina diritti e divieti volti a garantire la libertà e dignità del lavoratore; in particolare in materia di libertà di opinione del lavoratore (art. 1), regolamentazione del potere di controllo (artt. 2-6) e disciplinare (art. 7), di mansioni e trasferimenti (art. 13).
Il titolo II (artt. 14-18), dedicato alla libertà sindacale, nell’affermare e disciplinare il principio cardine del diritto di costituire associazioni sindacali nei luoghi di lavoro e di aderirvi (art. 14), sancisce la nullità degli atti discriminatori (art. 15), pone il divieto di costituire o sostenere sindacati di comodo (art. 17) e, allo scopo di rendere effettivi tali diritti, introduce la garanzia della stabilità del posto di lavoro, disponendo le tutele accordate al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo (art. 18).
Proprio l’art. 18 ha rappresentato per quasi trentacinque anni il cardine della disciplina limitativa dei licenziamenti e ha costituito in definitiva il più efficace riconoscimento e la più ampia garanzia a livello individuale dei diritti e delle libertà enunciate dallo Statuto. In sostanza, ogni volta che il giudice avesse ritenuto illegittimo un licenziamento, la sanzione prevista era la reintegrazione nel posto di lavoro (nel caso di imprese con più di 15 dipendenti).
Nel corso degli anni (a partire dal biennio 1992/1993), varie sono state le modifiche. Le stesse, segnano delle vere e proprie tappe.
Infatti:
- È con l'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992 n. 421, in attuazione del quale venne emanato il d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, che la disciplina delle fonti rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni vira imboccando la strada della “privatizzazione”. In attuazione della legge delega venne emanato il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29. Tra le novità più importanti si ebbe l'introduzione di meccanismi per la valutazione dei risultati, lasciando ai dirigenti l'adozione di misure idonee a consentire la rilevazione e l'analisi dei costi e dei rendimenti dell'attività amministrativa, della gestione e delle decisioni organizzative. I direttori generali devono ora per la prima volta adottare le misure organizzative idonee alle valutazioni sui costi ed i rendimenti dell'azione, sulla gestione e sulle decisioni.[2] Con altre disposizioni, immediatamente applicabili alle amministrazioni dello Stato, le amministrazioni sono obbligate a dotarsi di servizi di controllo interno, detti anche nuclei di valutazione, preposti a verificare l'imparzialità ed il buon andamento dell'azione amministrativa. L'innovativa legislazione, pertanto, senza ledere l'art. 39 Cost., si colloca nell'ambito della riserva di cui all'art. 97 Cost., che prevede che i pubblici uffici siano organizzati in base a norme di legge in modo che ne siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità. Oltre a ciò, il decreto legislativo n. 29/1993 si proponeva di accrescere l'efficienza delle amministrazioni e di razionalizzare il costo del lavoro pubblico: si parla per la prima volta di speditezza, economicità e trasparenza, operandosi con l'articolo 3 la fondamentale cesura tra potere politico e potere gestionale. Il decreto ampliò inoltre le responsabilità dei dirigenti e introdusse il principio fondamentale della separazione tra funzioni di indirizzo e funzioni di gestione.
- Nel 1997 con le riforme del ministro Tiziano Treu (all'epoca Ministro del Lavoro del Governo Prodi I) e le successive riforme Bassanini (l'allora Ministro della Funzione Pubblica) che per vie diverse, ed in molti casi, per attuare disposizioni di natura comunitaria, modificarono profondamente l'intero settore: si pensi alla liberalizzazione dell'assunzione con la cessazione dell'obbligo di chiamata presso il cosiddetto Ufficio di collocamento, l'abolizione del libretto del lavoro, l'introduzione del lavoro interinale con la legge 24 giugno 1997, n. 196.
- In particolare, poi, il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80, che diede luogo alla cosiddetta seconda privatizzazione, venne emanato al fine di rendere più chiara la distinzione tra fonti pubblicistiche dell'organizzazione dei pubblici uffici e fonti privatistiche del rapporto di lavoro, innova le disposizioni del d.lgs. n. 29/1993. Il decreto introdusse molte novità; anzitutto la riconduzione della giurisdizione al giudice del lavoro dal 1º luglio 1998: infatti, ex art. 17 del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80, la giurisdizione torna al giudice ordinario; e dalla sottoscrizione dei contratti di comparto per il quadriennio 1998-2001 - i secondi dal 1993 - perdono efficacia le ultime leggi speciali sul pubblico impiego. Precisò anche con accuratezza le funzioni dei dirigenti (anche in relazione alle più chiare competenze degli organi di indirizzo politico), di istituire il ruolo unico della dirigenza (che sarà poi soppresso dalla legge 15 luglio 2002, n. 145), e, in relazione alla contrattazione collettiva, di stabilire che la violazione della stessa è motivo di ricorso in cassazione (viene inoltre regolato un procedimento che consente di giungere all'interpretazione delle clausole controverse in sede A.R.A.N., allo scopo di scongiurare il rischio di una disapplicazione pretorile, ad es. attraverso il ricorso ex art. 700 c.p.c., delle clausole del contratto collettivo, in maniera non omogenea sul territorio nazionale).
- Sulle riforme che hanno riguardato l'impiego alle dipendenze delle P.A. si è innestata la riforma costituzionale di cui alla legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3 ("Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione"). Tale legge ha riformato, in particolare, l'art. 117 Cost, modificando il riparto della competenza legislativa in materia di lavoro fra Stato e regioni. Nella sua formulazione originaria la Carta costituzionale non prevedeva competenze legislative regionali esclusive in materia di lavoro; alle regioni spettava, quale unica materia, almeno in parte lavoristica, attribuita alla potestà legislativa concorrente – e dunque nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato – quella dell'orientamento e formazione professionale. Alle regioni erano state poi delegate - con il d.lgs. 232, dicembre 1997, n. 469, emanato ai sensi della delega conferita dalla legge 15 maggio 1997 n. 59 ed in applicazione dell'art. 117 Cost. - potestà legislative in materia di politica del lavoro (collocamento e politiche attive del lavoro), da esercitarsi in attuazione delle norme dettate in materia dal legislatore nazionale. La riforma costituzionale del 2001 ha profondamente rivisitato tale assetto di competenze, disponendo l'attribuzione alle Regioni in materia lavoristica della potestà legislativa concorrente relativa anche tutela e sicurezza del lavoro. Successivamente hanno fatto seguito le riforme del 2012 e del 2015. Nel 2012 la riforma del lavoro Fornero ha previsto, al posto della sola reintegra, quattro differenti regimi di tutela che si applicano gradatamente a seconda della gravità dei vizi che inficiano il licenziamento. In seguito, poi, alla promulgazione e attuazione del Jobs Act da parte del governo Renzi, attraverso l'emanazione di diversi provvedimenti legislativi varati tra il 2014 e il 2015, l'art. 18 è rimasto in vigore per i soli rapporti instaurati prima del 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore del decreto legislativo numero 23/2015) e già destinatari della tutela prevista dalla norma. Da tale data, infatti, per i contratti a tempo indeterminato si applica la disciplina del cosiddetto contratto a tutele crescenti, introdotta sempre dal d.lgs 23/2015 (decreto attuativo del Jobs Act). Per tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e licenziati ingiustamente, la norma prevede come sanzione principale in pagamento di un’indennità risarcitoria, limitando ulteriormente le ipotesi di reintegrazione nel posto di lavoro. Nel titolo III si tracciano le prerogative dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro, attraverso il riconoscimento al sindacato del potere di operare nella sfera giuridica dell’imprenditore, per il conseguimento dei propri obiettivi di rappresentanza e di tutela. Tra le disposizioni del titolo IV, oltre a quelle in materia di permessi e aspettative per i dirigenti sindacali (artt. 30-32), assume una posizione cruciale l’art. 28, che predispone un particolare strumento giudiziario volto a reprimere condotte antisindacali, in quanto impeditive o limitative dell’esercizio dell’attività sindacale o del diritto di sciopero. Si tratta di una norma di centrale importanza nel disegno complessivo dello Statuto, in quanto legittima il sindacato ad agire direttamente nei confronti dell’imprenditore e a ottenere una pronuncia giudiziale di condanna, con ciò sancendo nella sostanza l’effettività dei diritti sindacali enunciati. Il Titolo V stabilisce le norme sul collocamento e il Titolo VI le disposizioni finali e penali.
I MONDIALI DI CALCIO IN MESSICO: ITALIA-GERMANIA 4 A 3
Partita del secolo (in tedesco Jahrhundertspiel; in spagnolo Partido del siglo; in inglese Game of the Century) è il termine con cui ci si riferisce all'incontro di semifinale del IX campionato mondiale di calcio tra le nazionali di Germania Ovest e Italia che si svolse allo stadio Azteca di Città del Messico il 17 giugno 1970 e vide la vittoria italiana con il punteggio di 4 a 3 dopo i tempi supplementari e al termine di continui cambiamenti di risultato che andarono di pari passo con lo sviluppo del punteggio.
Il nono campionato del mondo organizzato dal Messico si giocò ad altitudini vertiginose: Città di Messico 2277 metri, Puebla 2164, Toluca 2680, Guadalajara 1545, Leòn 1885. Fu come giocare sulle Alpi.
Si temettero affanni e malesseri per la rarefazione dell’aria. Molte nazionali fecero preparazioni specifiche. La Svezia realizzò cabine pressurizzate per assuefare i giocatori alle condizioni messicane. I cecoslovacchi si allenarono sui Pirenei, i bulgari sui duemila metri di Belkemen, la loro montagna, dove ospitarono i sovietici. Anche gli israeliani, per la prima volta al Mondiale, si prepararono ad alta quota: prima sul monte Hermon, poi ad Addis Abeba, infine nel Colorado. Brasile e Inghilterra sostarono a lungo in Messico prima del campionato. Italia, Germania e Belgio non usarono accorgimenti particolari, ma anticiparono l’arrivo in Messico.
C’era una grande ruggine tra sudamericani e inglesi dopo che questi ultimi, al Mondiale 1966, definirono “animals” i giocatori argentini.
Nelle prime tre partite, l’Italia rimediò la striminzita vittoria sulla Svezia e due pareggi senza gol con Uruguay e Israele. Passò il turno con quell’unica rete di Domenghini che fu definita “Cassa di risparmio”. Lo 0-0 con l’Uruguay fu il frutto di un tacito patto di non belligeranza fra le due nazionali. Contro Israele, venne annullato un gol a Domenghini su segnalazione del guardalinee etiope Torrekegn. In televisione, Nicolò Carosio lo chiamò “negraccio” in diretta e fu licenziato in tronco dalla Rai.
Per tenere calmo Rivera, il presidente della Federcalcio Franchi inventò la staffetta, escamotage che debuttò nella terza gara, contro Israele. Invocato dal pubblico, Rivera entrò nel secondo tempo e sostituì Domenghini stremato dalla sua generosità.
Ma la staffetta storica, quella tra Mazzola e Rivera, nacque nella partita dei quarti contro il Messico (4-1). Mazzola doveva dare tutto nel primo tempo, poi entrava Rivera. L’interista si infuriò per il cambio: “Si sapeva che Rivera sarebbe entrato nel secondo tempo, ma non era deciso che dovevo uscire io”.
In realtà, la notte precedente la partita, Mazzola era stato colto da una violenta diarrea e Valcareggi gli aveva preannunciato di tenerlo in campo solo un tempo se non si fosse sentito in forze. Se ce l’avesse fatta, allora Rivera sarebbe entrato, ma al posto di Boninsegna. Mazzola giurò di essere in perfette condizioni e di potere giocare anche la ripresa, ma fu lui ad essere sostituito. Contro il Messico Riva segnò due gol, ma continuava a soffrire per l’altitudine.
Il 4-3 con cui gli azzurri si imposero (dopo i tempi supplementari) è diventato un pilastro della storia del calcio, azzurro e non solo, e ha finito per diventare una pagina di storia italiana anche fuori dal rettangolo verde.
Si trattò di un incontro che, nonostante sul piano tecnico sia stato oggetto di critiche da parte di commentatori legati al cosiddetto «gioco all'italiana» come Gianni Brera, ad oggi è considerato uno dei momenti più emozionanti della storia dello sport italiano e, più in generale, della storia italiana del dopoguerra, tanto da vantare ancora nel 2020, a cinquant'anni di distanza, un rilevante impatto sulla cultura di massa del Paese: tra i più noti omaggi figura il film del 1990 Italia-Germania 4-3, commedia che rappresenta questo evento come spartiacque culturale e generazionale.
Sul piano dell'impatto culturale, Italia-Germania Ovest può essere considerata una delle partite più emozionanti ed influenti nella storia del calcio professionistico. Amata dalla gente, che rimase incollata ai televisori fino a tarda notte per seguirla, suscitò disapprovazione tra i cosiddetti "puristi" della disciplina, che assistettero all'assoluto annullamento della tattica in favore dell'agonismo più puro.
Nella finale con il Brasile - dopo un primo tempo abbastanza equilibrato durante il quale la squadra italiana riuscì a pareggiare -, con un rocambolesco gol di Roberto Boninsegna, la rete iniziale del Brasile su colpo di testa di Pelé, nel secondo tempo la squadra sudamericana prese progressivamente il sopravvento e dimostrò una netta superiorità tecnica segnando altri tre gol. Al termine della partita la coppa Rimet venne quindi assegnata al Brasile, vincitore per la terza volta della competizione.
La staffetta Mazzola-Rivera non si fece nella finale e Rivera venne fatto entrare in campo, a sei minuti dal termine, quando il risultato era già compromesso. Ciò generò molte polemiche nel calcio e non solo.
Gli azzurri, però, ci hanno - poi- dato la soddisfazione di vincere i mondiali in Spagna nel 2002 ed in Francia nel 2006.
IL RITARDO DEGLI SCRUTINI E DEGLI ESAMI, CAUSA SCIOPERO DEI DOCENTI
L'anno 1970 era stato designato dalle Nazioni Unite l'"Anno internazionale dell'istruzione". I Paesi membri fra cui l'Italia erano stati impegnati a procurare una maggiore disponibilità di mezzi per l'istruzione e iniziare un'azione di rinnovamento e di riforma, inteso a fare della scuola un organismo meglio rispondente alle esigenze di una progredita società democratica.
L'Italia si trovò, invece, nell’ impossibilità tecnica di spendere tutti i fondi assegnati in bilancio, per (un vizio che persisterà) il ritardo nella attuazione delle riforme e per il mancato allineamento delle amministrazioni alle nuove dimensioni del grande fenomeno di carenza scolastica Un ritardo che procurò all'Italia lo spiacevole verdetto emesso (alle sessioni di Parigi) dall'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCDE).
L'Italia venne definita: "Arretrata nello studio dei processi di apprendimento, incapace di preparare i nuovi docenti per la scuola secondaria e per le esigenze da essa poste". Mentre in quasi tutti i paesi si sono compiuti sforzi cospicui in materia di revisione dei programmi, di amministrazione e di politica scolastica, l'azione italiana in questo settore appare di una inquietante incoerenza".
Sembra la pagella di un bambino, invece è quella di una Nazione.
Da anni, e dopo il '68, del '69, e nel corso del 1970 le discussioni del progetto governativo per una riforma della scuola, non erano mancate. Esperti italiani e stranieri avevano discusso (al Convegno di Frascati di aprile) alcune linee direttive per una riforma generale con un progetto abbastanza audace ma di indubbia potenzialità costruttiva. Mentre altre buone idee con una famosa circolare del successivo 3 giugno (quella del ministro della P.I. Misasi, n.189) pur con spunti non disprezzabili di interesse pedagogico e sociale, avevano suscitato perplessità, aspre polemiche e ampia diversità di applicazione, e dove come al solito le lobby dei conservatori reagirono.
Ma questi erano i referenti della corporazione delle scuole private (la maggior parte cattoliche), che non erano poche, ma il 25% della intera struttura scolastica italiana e con in mano oltre il 50% di quella materna. Vedere riqualificare e ammodernare una scuola pubblica sconvolgeva potenzialmente tutto il business del settore privato.
Nella realtà, dentro quelle vecchie strutture, c'erano gli insegnanti con il loro annoso problema economico fermo da dieci anni, e quello giuridico qualitativo fermo da venti, nonostante la grande esplosione scolastica. E fu proprio la categoria degli insegnanti che dichiarò guerra al governo in uno scenario già compromesso e in piena caduta di stile e di sostanza su tutti i fronti: economici, politici e sociali.
A questi ultimi grossi problemi, si erano infatti aggiunte ed erano iniziate - sotto la spinta di una dura azione sindacale - le incontrollate agitazioni degli insegnanti che alla fine dell'anno scolastico il 3 giugno 1970 bloccarono tutti gli scrutini e gli esami per 26 giorni a circa otto milioni di studenti: dalla 1a elementare all'ultima classe di liceo con disagi per le famiglie e gli studenti (addio vacanze!) mentre il governo dentro una preoccupante crisi politica ed economica e con una voragine nel bilancio, reagì nel peggiore dei modi: non volle cedere alle loro richieste e tenne duro per settimane e settimane .
Il governo poi corse ai ripari il 23 giugno emettendo un aspro decreto di stato di emergenza (il n.384 - un vero atto di guerra dichiarata) che molti giudicarono da Terzo Mondo e fece ridere mezza Europa e perfino i bambini che frequentavano la prima elementare. Quest'ultimi erano appena capaci di fare le aste, ma pure loro capirono perfettamente che quella era una "beffa".
Infatti, in sostituzione degli insegnanti, il Provveditore agli Studi con questo decreto ("guerra") poteva delegare personale "estraneo alla scuola" a prendere visione dei registri e gli atti riguardanti la carriera scolastica degli alunni e "decidere" la promozione. Di fronte a questa prospettiva che li esautorava del tutto gli insegnanti il 5 e il 7 luglio ritornarono a scuola a iniziare gli esami e fare gli scrutini che durarono fino alla vigilia di ferragosto.
Ma il problema Scuola Italiana, non era stato affatto risolto.
Si salvarono dunque gli esami e si spostò poi tutta l'attenzione non sul piano di sviluppo della scuola tendente a una trasformazione con prospettive pedagogiche e sociali, o all'aumento delle dotazioni didattico-scientifiche moderne, o a una migliore qualificazione per allinearsi ai paesi europei; e neppure si attuò una revisione dei programmi precedenti che terminavano proprio il 31 dicembre 1970, rimasti statici e senza aver migliorato proprio nulla.
Si emisero invece una serie di decreti legge tendenti solo a migliorare le condizioni giuridico economiche degli insegnanti pur non aggiungendo ulteriori future garanzie morali e materiali agli stessi.
(Miglioramenti che poi con un effetto a catena innestarono altre rivendicazioni di altri dipendenti pubblici e che resero ancora più problematiche le spese dello Stato, che iniziò impotente a cadere nel baratro del debito della spesa pubblica)
Totale: dei 1862 miliardi destinati all'istruzione, 1447 andarono agli insegnanti, 229 per le spese, 158 per informazione e cultura e solo 27 miliardi per l'edilizia e i laboratori. Addio riforma! Con i fondi rimasti, si riuscì ad acquistare solo qualche matita in più.
La polemica era già nata nel 1904, quando si trattò di portare l'obbligo scolastico alla quinta elementare, cosa che avvenne con Orlando nel 1904, che mise il limite (alla "coscrizione scolastica" cosi la chiamavano per terrorizzare le famiglie) dell'età scolastica ai 12 anni con l'istituzione della sesta classe. Ma, essendo le bocciature a quei tempi alte nelle elementari, la massa si fermava quando andava bene, alla quinta. Anche perché allora, molti comuni infatti, soprattutto nel Meridione, non erano in grado (era a loro carico, struttura e stipendio agli insegnanti) di istituire scuole quinquennali.
L'obbligo a 14 anni fu poi istituito ufficialmente da Gentile nel 1923, ma di fatto anche questa volta rimase lettera morta per la stragrande maggioranza dei ragazzi italiani fino al 1962-63 quando fu avviata la riforma della scuola media unica.
Infatti i licenziati a 14 anni, tra i nati dal 1949 in poi, fino al '63 era appena un 45%. (anche perché si accedeva al percorso post elementare (medie e avviamento) con un esame di ammissione molto rigido e selettivo).
Questo nonostante dal 1948 un articolo della Costituzione della Repubblica imponesse un OBBLIGO di frequenza scolastica di almeno otto anni.
Per arrivare al 100% di licenziati bisogna infatti arrivare, con gradualità, molto più avanti: alla classe dei nati nel 1976 che ottennero la licenza media per lo più nel 1990.
A essere colpiti (dopo le agitazioni degli insegnanti nel 1970) furono 7.608.747 alunni delle sole scuole pubbliche, gli altri 1.920.947 alunni ricchi benestanti delle scuole private i primi di giugno tranquillamente (il ministro ha dato loro il benestare) iniziarono gli esami e se ne andarono altrettanto tranquillamente al mare. La "scuola di classe" non era affatto finita! E per fare un ingegnere o un dottore non bastava certo la demagogia.
Questo scenario di inefficienza causò carenze su tanti altri aspetti della vita sociale. La scuola materna ad esempio era in grado di accogliere solo la metà circa dei bambini da 3 ai 5 anni d'età; nell'intero anno del quinquennio non fu possibile né realizzare compiutamente l'ordinamento della scuola media, né era stata attuata la riforma della scuola secondaria superiore. Soprattutto sul piano organizzativo l'edilizia scolastica e universitaria non è riuscita a tenere il passo dell'espansione della popolazione scolastica, ne' al ritmo di apprestamento delle risorse finanziarie destinate ad eliminare gran parte delle carenze presenti in tutte le scuole del Paese (in alcune zone metropolitane mancavano il 50% delle aule e si ricorse ai doppi turni, mentre nelle Università rispetto agli anni Cinquanta, bisognava moltiplicare per dieci la disponibilità sia dei locali che dei professori - il cui contatto con lo studente avveniva in aule che sembravano le tribune degli stadi del calcio)
Questi condizionamenti e queste lacune influirono dunque negativamente sulla frequenza e sui risultati, e costituì il vero e proprio problema per riuscire a dare una maggiore elevazione culturale ai cittadini e per eliminare una delle piaghe più gravi che hanno rattristato per lungo tempo la società italiana: l'analfabetismo
Ma all'eliminazione del numero di analfabeti (e sembra siano state finora rivolte solo per questo le iniziative pedagogiche ed educative) che all'inizio del secolo risultava ancora del 48,6% della popolazione non è seguita un'azione per eliminare il diffuso disinteresse verso l'elevazione della coscienza culturale che tanto dovrebbe favorire l'apertura delle numerose porte alla cultura diffusa.
Ricordiamo che ancora nel 1971 fu presente, come da decenni, il triste primato di essere ultimi nella classifica europea come lettori. “Il 76% degli italiani non legge nemmeno un libro all'anno. Del restante 24%: 10 leggono da 1 a 3 libri, 5 da 4 a 7, e solo 9 lettori leggono più di otto libri all'anno (la Spagna ha rispettivamente 17, 8 e 15. Mentre più di 8 libri sono letti dal 40% degli inglesi, dal 33% francesi, 35% olandesi)”.
Ma furono i giornali a dare un triste panorama sul tipo di cultura diffusa. I dati erano molto deludenti. L'Italia figurava nel fanalino di coda insieme alla Spagna: 10 giornali ogni 100 abitanti, 49 in Svezia, 37,8 in Norvegia, 33,1 in Svizzera, 30,6 in Germania, 30 in Belgio, 39,9 in Gran Bretagna. 27 in Francia, 23,3 in Olanda.
A distanza di 50 anni non è cambiato molto anche se, nel corso degli anni, abbiamo avuto:
- i decreti delegati del 1974, che hanno riguardato lo stato giuridico del personale docente, direttivo, ispettivo e non docente. Inoltre, sono stati introdotti gli organi collegiali a livello di istituzioni scolastiche (giunte esecutive e consigli di istituto), sul piano territoriale (distretti e consigli scolastici provinciali) e nazionale;
- il rafforzamento dell’autonomia scolastica (legge 59/97, DPR 275/99 e regolamento di contabilità). Con la nuova autonomia i Presidi sono diventati Dirigenti Scolastici e i Segretari Direttori SGA.
- la Legge sulla scuola paritaria (Legge 62/2000). Una «legge di rilievo costituzionale» e «per certi aspetti rivoluzionaria». Basta leggerne il titolo: ‘Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione’. Dunque non solo parità scolastica, ma anche diritto allo studio e, cosa inedita, all’istruzione’;
- la revisione degli ordinamenti scolastici e l’istituzione dei cicli.
CONCLUSIONI
Senza alcuna pretesa di completezza ed esaustività, riteniamo di aver fornito un utile contributo a quanti, come noi, vogliono ricordare il passato per comprendere il presente e preparare il futuro.
Lì, 12.10.2020
IL PRESIDENTE
Giorgio Germani
P.S.: si ringrazia per la collaborazione - nella ricerca di documenti, dati e approfondimenti – la Sig.ra Giuseppina Filippelli dipendente Anquap dell’Ufficio di Roma.